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NEL MESE DI OTTOBRE IL DUCE CONQUISTO’ ROMA E L’IMPERO

Perugia rischiò la guerra civile nel 1922

 

di  Adriano Marinensi

 
in “Umbria Settegiorni”

 

Il mese di ottobre appena trascorso, ci ha ricordato due date importanti di storia patria (e regionale), entrambe riferite alla nefasta “era fascista”. I dies orribilis sono il 28 dell’anno 1922 e il 3 del 1935. Il primo vide protagonista la città di Perugia per essere stata scelta come sede di raduno degli squadristi di Emilio De Bono, che dovevano marciare su Roma (pugnal tra i denti, le bombe a mano). Molti invece furono gli umbri (soldati semplici e ufficiali) partiti volontari per prendere parte (nell’autunno ’35) alla Campagna d’Africa. Perugia, il 27 ottobre 1922, visse ore drammatiche a causa dello scontro di potere tra il generale Aurelio Petracchi (Guardia regia, Esercito, Carabinieri) e i caporioni delle camicie nere che avevano occupato i centri nevralgici della città. Insieme agli altri “camerati” riuniti, a Foligno. Si arrivò ad un passo dal conflitto armato, per colpa della tracotanza fascista. Soltanto la mattina del 28, quando il Re revocò lo stato d’assedio, le camicie nere, al grido di “A Roma, a Roma”, lasciarono Perugia, dirette verso la capitale. L’Umbria s’era salvata, l’Italia no.
Facciamo ora un salto in lungo. Sempre a Roma, il 2 ottobre 1935, è mercoledì e, verso l’imbrunire, c’è un uomo, comparso al balcone di un palazzo antico, situato di fronte all’Altare della Patria. Tiene le mani a pugno chiuso piantate sui fianchi, il torace gonfio che sembra una zampogna suonata, lo sguardo allucinato, l’uniforme delle pompose (e scellerate) occasioni. L’uomo pettoruto deve dare alla folla, accalcata sotto il poggiolo, un grande annuncio. Per solennizzare l’evento, c’era stato uno spettacolare segnale di adunata : alle 15,30 precise, “il sibilo delle sirene – annotarono le cronache cortigiane – il suono delle campane, il rullo dei tamburi” avevano lanciato l’appello “per far vivere, non soltanto ai romani, ma ad ogni italiano, dalla vetta del Brennero a Capo Passero, una delle grandi, decisive giornate della storia millenaria”. Dal cielo di Roma – ancora il cronista di regime – “scendeva la musica guerriera che d’ogni musica è la più bella, suonata dal rombo dei poderosi aerei da bombardamento e dai caccia saettanti”. Lo  scenario naturale (il cielo è sereno dopo la pioggia mattutina) lo arricchisce – annota il pennaiolo – “la travolgente passione della immensa moltitudine di popolo”. Un mare di Balilla, Balilla moschettieri, Avanguardisti, mischiati alle “bianche schiere” di Giovani Italiane (e chissà quanti Figli della lupa e Massaie rurali).  Quel “gigantesco cerchio umano, avviluppato attorno a Roma, stava confluendo in Piazza Venezia”, per esaltare “la stupenda genesi della grandiosa giornata” ed udir trepidando la voce maschia e tonante dell’uomo eretto, come un monumento alla follia, sopra la loggetta. Il quale monumento cominciò così : “Camicie nere della Rivoluzione, uomini e donne di tutta Italia, italiani sparsi nel mondo, oltre i monti e oltre i mari, ascoltate !”  Quel 2 di ottobre dell’anno XIII° dell’Era fascista, gli italiani, ovunque sparsi, seppero che il loro maschio condottiero, Benito Mussolini, aveva deciso di usare le armi in Africa Orientale e conquistare l’Impero. Al nobile fine di consentire – proclamò testualmente – “a questo popolo di poeti, di artisti, di eroi, di Santi, di navigatori, di trasmigratori”, il diritto di avere un posto al sole. Il mattino del 3 ottobre, le armate di Emilio De Bono (sostituito appena due mesi dopo, perché incapace di fornire al Duce successi spettacolari, da Pietro Badoglio) e Rodolfo Graziani, dall’Eritrea e dalla Somalia, iniziarono l’invasione dell’Etiopia. Italiani e “ascari” insieme. Era cominciata la campagna d’Africa che avrebbe dovuto offrire al maestro di Predappio nuova gloria ed al Re sciaboletta il titolo di Imperatore. Era cominciata al canto di “faccetta nera”, la canzoncina di Ruccione e Micheli che prometteva alla “morettina che sei schiava tra le schiave” di portarla “a Roma liberata” e di darle “un’altra legge e un altro Re”. Poi le faccende andarono diversamente e la patria di “faccetta nera, bell’abissina” divenne terra di conquista e colonia italiana. “Con l’Etiopia – disse De Bono – abbiamo pazientato 40 anni, Ora basta!” E fu così che i suoi “irresistibili fanti”, insieme alle “ardenti Camicie nere, guidate dai capi della Rivoluzione fascista e ai travolgenti Ascari”, iniziarono la grande impresa. Che si concluse il 5 maggio 1936, quando lo stesso monumento (all’alterigia), dal medesimo balcone di Piazza Venezia, durante identica sceneggiata, annunciò ad altrettanta folla (oceanica, si capisce) : Habemus Imperum ! La marzialità del regime s’andava così ad aggiungere, perché fosse di monito al mondo, alla fama sportiva conquistata, appena due anni prima, il 10 giugno 1934, a Roma, quando gli azzurri avevano vinto il Campionato del mondo di calcio. Pure in tale occasione, per non perdere l’abitudine alla ridondante retorica parolaia del regime, così si lesse : “Nel momento in cui vede consacrata la grande vittoria, la folla si volge grata al Duce. E’ nel suo nome che la gioventù dell’Italia si fa più forte negli stadi e nelle palestre (…) ed all’invocazione al Duce, s’accompagna il canto di Giovinezza” (parole di Gotta e musica di Blanc). Non c’è bisogno di puntualizzarlo, tutto quanto sopra scritto tra virgolette, l’ho tratto da documenti ufficiali e, in maggiore misura, da giornali d’epoca, la iperbolica informazione quotidianamente sorpresa nell’esercizio del servo encomio. Anche la stampa era in camicia nera, parte per obbligo di legge, parte perché teneva famiglia, parte per spontanea passione. Perché, sono anche queste le aberrazioni del pensiero unico.

 

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