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Il giuramento come giudizio di Dio

Il corpo: simbologia dell’incontro tra il potere secolare e quello spirituale

 

di Edvige Kort

 

Ci sono delle situazioni che a volte appaiono incomprensibili. Ne scegliamo tra tutte, due. La prima: l’abitudine a giurare, magari sulla testa dei figli, per dare credibilità a quanto si afferma. La seconda: la messa in scena del proprio corpo.

Veniamo alla prima. Il problema del giuramento è una cosa seria e non soltanto per i cristiani. Lo storico Paolo Prodi ha dedicato, negli anni, studi molto seri sull’argomento e recentemente per il Mulino (2/11) ha riproposto l’argomento spiegando il rapporto che esiste tra i “Monoteismi e le religioni”. Osserva lo storico che il “potere” ha a che fare col sacro, poiché mette in gioco il dominio, la vita, la morte. Il giuramento è asservito ad esso. Per questo si presenta come una realtà dinamica, in continuo mutamento all’interno del processo evolutivo della religione e della politica del mondo occidentale. In questa evoluzione, l’ambiguità del rapporto del cittadino-cristiano con il potere dello Stato («date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio») agisce come un processo volto alla de-sacralizzazione del potere stesso, indipendentemente dalla sua natura. Questa sviluppo complessivo della questione, che si è snodato ininterrottamente nell’Occidente, a partire dal XV secolo, in coincidenza con la Riforma, secondo un percorso quasi ininterrotto, è frenato come mostra la rappresentazione della moderna crisi delle nostre istituzioni politiche.

Il rapporto tra la sfera del sacro e quella del potere ritorna d’attualità in quanto il percorso storico della società europea che ininterrottamente è andata nel verso della de-sacralizzazione del potere politico, oggi subisce una battuta d’arresto. La democrazia diventa affidamento, un atto di fede nelle capacità di quanti hanno avuto “l’investitura popolare” e il voto, per quanto sia inquinato dagli astensionismi, dalla sfiducia, dal forte limite imposto alla scelta diretta dei candidati, il voto, introduce nel “patto” democratico, un elemento del tutto nuovo e ad esso esterno. Cioè “la rinuncia” alla propria titolarità da parte dei più nelle mani di pochi ai quali si concede una delega piena, intesa come totale “affidamento”. Nel rapporto democratico tra eletti ed elettori, viene introdotto un elemento “estraneo” alla Costituzione che non prevede, infatti, la piena disponibilità del mandato parlamentare.

Ripercorrendo a ritroso il rapporto che è intercorso e intercorre tra la politica ed il potere, verifichiamo che la forza intrinseca al giuramento trova conferma nella “testimonianza” affidata a Dio che sprigiona, nello spazio della comunicazione, un elemento di “sacralità” introdotto surrettiziamente da colui che proferisce il giuramento in quanto si rapporta direttamente con il “trascendente”. La verità è garantita dall’alto perciò non ha bisogno di essere provata. Tanto meno nelle aule dei tribunali. Per questo anche tutti i “meccanismi” messi in atto per allontanare il “giudizio degli uomini” sono quasi giustificati  dal maggior valore che il “giudizio di Dio” ha su questo. Sarebbe dunque un errore, indotto dalla focalizzazione su un solo aspetto della svolta epocale di cui siamo testimoni, non tenere conto di come la carta giocata del “giuramento” incida sulla crisi attuale. Essa non riguarda tanto o soltanto l’economia ma soprattutto riguarda la messa in discussione di tutto il “patrimonio” che abbiamo ereditato dalle precedenti generazioni, e in particolare riguardo allo Stato di diritto e alla democrazia. La ricorrenza di questo 25 aprile, per non parlare delle polemiche sulla celebrazione del centocinquantenario dell’unità d’Italia, ne sono una conferma. E’ una crisi di “sistema” non denunciata dal consueto richiamo ai “valori” della nostra civiltà e della nostra vita nazionale. Dobbiamo ricominciare a ragionare, a cercare di capire come e perché il filo si è interrotto, dobbiamo cercare di capire da dove e da quando il rapporto tra gli uomini e le istituzioni, che abbiamo creato nelle generazioni precedenti, non funziona più e recuperare, allo stesso tempo, la capacità di progettare il nuovo. Certamente la strumentalizzare della riflessione storica, in funzione dell’oggi messa in atto da tanti “revisionismi”, non aiuta ma, al contrario, una prospettiva storica di lungo periodo può modificare la diagnosi sulla realtà e renderla molto meno assoggettabile alle strumentalizzazioni della politica e alle leggerezze della cronaca. Da qui dobbiamo ripartire, dalla narrazione storica che può essere la cifra che aiuta a comprendere come dalle differenti diagnosi storiche possano nascere divergenti linee di strategia politica. E non tutte uguali. Il revisionismo storico, esercizio al quale si indirizza tanta stampa nostrana che si dedica a creare la giustificazione apparentemente logica dei contorsionismi della politica asservita e domata dal gioco delle parti, induce il falso convincimento che attorno a noi nulla sia mutato e muti. Il “continuismo”, sempre rassicurante, copre i contorsionismi e le contraddizioni. Fuori dai confini nostrani, gli altri vedono quello che accade e giudicano quello che siamo, in base a quello che mostriamo di essere.

Il problema è comprendere se questo sia ancora accettabile considerando i costi dei quali la storia non è mai avara. Quando la tensione “morale” che sostiene, difende, alimenta la democrazia, viene meno, il potere inclina a riformarsi come monopolio che ingloba anche il sacro.

Per comprendere come le democrazie possono costituire terreno facile alle “religioni politiche” e ai “totalitarismi, quando l’unità statale nazionale non viene più percepita come unica possibile identità collettiva, basti guardare il tentativo in atto nel nostro Paese. L’anima collettiva, al cui mantenimento rivolge le preoccupazioni il Presiedente della Repubblica, è cercata non nel recupero di “una società corporata” (l’espressione è di E. Durkheim), ma nel recupero di una identità frantumata, separata, diversa e divisa. Le residue resistenze a questo processo che ancora sono vive nel Paese, potrebbero affrettare il processo di omologazione identitaria, richiesta dallo Stato-nazione, che la destra sta conducendo. A Milano è iniziata la resistenza contro i giudici, al Centro è riapparsa la stella a cinque punte, a Roma il simbolo dei fasci littori.

Veniamo al secondo aspetto che abbiamo promesso di trattare: la messa in scena del proprio corpo.

La politica si fonda sulla rappresentanza. Non è soltanto “esecuzione” del potere  ma anche sua “raffigurazione simbolica”. G. Zagrebelski riprendendo la classica visione della struttura delle nostre società, recupera le tre funzioni riguardanti rispettivamente la politica, l’economia, la simbologia. Esse conformano rispettivamente la volontà, le necessità, le mentalità. Quando è in gioco il potere, ciascuna delle tre tende ad imporsi sulle altre due e ad asservirle. Il potere simbolico, è il potere di tutti il più sottile e pervasivo. Esso svolge, collocandosi in posizione intermedia tra chi rappresenta il simbolo e chi lo riconosce, compiti di unificazione,diffusione di fiducia, promozione di lealtà e di sentimento di appartenenza. Guardiamo il rito che circonda il culto del corpo del capo del governo: nessuno si trottare alla funzione di cultore e custode. Le donne del partito lo difendono al posto del proprio onore, gli uomini mettono a repentaglio, pur di servirlo, tutta la loro storia, i nemici lo temono quando “scende in piazza”, i curiosi sorridono all’opera buffa che rappresenta. Insomma “il corpo”, anche quando viene “ereticamente” colpito, o si mostra vistosamente “sfigurato” o esteticamente “adornato”, il corpo assume una “sacralità” che contraddice i principi di uguaglianza e di sovranità popolare. La condotta politica da venti anni a questa parte, si manifesta anche attraverso la “fisicità” corporea e richiede particolari tecniche di messa in scena.

Questa tecnica performativa sempre più è diventata indispensabile ma anche pericolosa. Scenari di cartapesta inquadrano gli incontri internazionali, figuranti affollano il retropalco, la rappresentazione ha un solo personaggio che incarna il perfetto istrione protagonista della canzone di Ch. Aznavour. I sondaggi servono a verificare costantemente il grado di corrispondenza della rappresentazione alla realtà. Anzi della “iper-realtà”. Perché tra la realtà reale e quella rappresentata, si crea un corto circuito. La prima induce la seconda ma questa, nel momento in cui la assume, tende a trasporla. In primo piano è il ruolo giocato dal corpo, la sua gestualità, la sua fisicità, la sua credibilità sulla scena.

Così nella nuova dinamica della comunicazione mediatica, si manifesta il “terzo” corpo del politico. Non consiste in un corpo fisico, perché si nutre soltanto di immagini e discorsi mass-mediatici; non ha funzione simbolica, perché non rappresenta alcuna istituzione (il cui prestigio prevaricherebbe). Esso è una proiezione di tutto quanto è “politico” (sia acting for-la rappresentanza-, che standing for-la valenza simbolica), che può essere variamente connotato su un canovaccio iniziale. L’imprenditore, l’uomo del fare, il liberista-liberale, l’amico, il venditore, il cantante, l’amante. In sostanza il “sciur brambilla” per il quale tutto è business.

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